La
galleria Masaorita è un bel locale, sobrio ma non spartano, elegante
e per niente solito. Le pareti bianche sono l'unica possibile cornice
ai dipinti di Cateno Sanalitro, che a malapena sopportano di essere delimitati
dallo spazio delle tele, e, ogni volta che possono, sconfinano aggredendo
spazi e materiali eterodossi, umili, effimeri. Materiali “recuperati”
e, insieme attentamente (ri)cercati. Collage, certo, ma anche sovrapposizioni
ardite, palinsesti, colori asportati e abbondantemente apportati: un coprire
e uno svelare in appassionata e amorosa mescolanza e contrapposizione
di epoche, di luoghi, di culture. L'ultramoderno incombente, aggressivo
e il permanere silenzioso, discreto, di un'anima antica e semplice, umiliata
ma infine trionfante. L'età della pietra, l'età del coccio,
l'età del rame, l'età della plastica. Ma andiamo con ordine.
La mostra si intitola “Genocidio”. Genocidio non soltanto
nel significato letterale del termine, come atto finale e radicale di
annientamento fisico di un popolo. Il titolo e i contenuti non si configurano,
cioè, solo come denuncia di una distruzione estrema, ma ci parlano
di una più sottile distruzione, dell'omologazione, della terrificante
corrosione delle individualità culturali che la modernità,
con la sua marea montante di immondizia consumistica e di menzogne, soffoca
e seppelisce senza pietà. Ecco allora piccoli frammenti di coccio
raccolti nelle campagne del paese natio, incollati su altri frammenti
di arte nobile; pietruzze di varie forme disposte in fila ordinata
su una tela, ciascuna con una propria individualità, incorniciata
in una nicchia simbolica e nobilitante. Poi, in un'altra grande tela,
un puzzle di innumerevoli micro-paesaggi che sembra vogliano irridere
ogni velleità di rappresentazione figurativa ma sono al tempo stesso
delle raffigurazioni, delle piccole cune di nostalgia, anguste finestre
sui luoghi della memoria. Ma ecco, enorme e ossessivo, il polittico che
forse più di tutti rappresenta il tema del genocidio. Dodici tele
quadrate unite come tessere di un mosaico a formare un unico discorso,
chiaro e senza fratture né fronzoli: decine di figure umane. Anzi,
di corpi rinsecchiti allinenati sulla tela. Qui la ripetizione non ha
un valore decorativo ma espone brutalmente e direttamente i risultati
persino numerici, computabili della violenza. Ogni atto di violenza può
essere tradotto in cifre, ed è proprio l'astrazione del numero
a creare il distacco emotivo ad allontanare ed esorcizzare il male. Accanto
agli innumerevoli corpi senza volto ecco poi una serie di piccoli volti,
quasi un'immensa lapide commemorativa; e ogni volto è scrupolosamente
numerato. Cateno Sanalitro dipinge tanti volti in bianco nero, e sotto
ogni volto scrive un numero rosso: rosso come il sangue.
Simili a fiori davanti a questa tragica ara pacis, l'artista dispone tanti
agnellini pasquali coloratissimi, identici agli agnellini di zucchero
che si vedono a Pasqua in certe vetrine, e ogni agnellino è trafitto
da una specie di labaro con in cima un grumo di paccottiglia multicolore.
Avvicinandosi, ci si accorge che la punta del labaro è insanguinata.
Anche il genocidio - sembra voler dire l'artista - può essere impacchettato,
infiocchettato e trasformato in merce. Anzi è lo stesso consumismo
a trafiggerci, non senza averci anestetizzati e resi consenzienti.
Che dire poi delle installazioni di Cateno Sanalitro? Una delle più
notevoli è quella degli animaletti di filo di rame. Si tratta di
tanti piccolissimi quadrupedi costruiti avvolgendo del filo di rame e
poi dipinti di nero o di un altro colore: un lavoro che testimonia di
un metodo rigoroso, oltre che di una grande pazienza. Verrebbe da pensare
a un'operazione concettuale (ma Cateno è un artista istintivo,
tutt'altro che concettuale) e, perché no, all'umile lavoro degli
artigiani, del quale, a volte, l'arte di Sanalitro sembra essere affettutosa
parodia e citazione. C'è della disciplina in questo voler ripetere
all'infinito la stessa forma, con piccole variazioni. Disposti sul pavimento
della galleria Masaorita, gli “animaletti” costituiscono un
piccolo gregge compatto, chiuso dentro un cerchio disegnato sul pavimento.
Bisogna far attenzione a non calpestare queste minuscole sculture, queste
acefale pecorelle: è necessario girarci attorno, chinarsi a guardarle
e poi sollevare lo sguardo per scorgere, sullo sfondo dell'arido pascolo,
dei filiformi uccelli di legno, là, attaccati alla parete, sotto
un lucernaio che provvede allla scena la giusta luce.
IL tutto si presenta come un unico, appassionato racconto. I vari pezzi,
i singoli momenti o ambienti della mostra sono un tessuto senza strappi,
una storia coerente suddivisa in episodi proprio come i riquadri del tabellone
del cantastorie che l'artista, nel tentativo semiserio di costruire un
pedigree ai suoi modernissimi polittici, riconosce come possibili antenati
della propria arte selvatica e vitale.
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