"Genocidio in mostra", di Giovanni Monasteri
(in occasione della mostra personale alla Galleria Masaorita di Bologna, maggio 1992)

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La galleria Masaorita è un bel locale, sobrio ma non spartano, elegante e per niente solito. Le pareti bianche sono l'unica possibile cornice ai dipinti di Cateno Sanalitro, che a malapena sopportano di essere delimitati dallo spazio delle tele, e, ogni volta che possono, sconfinano aggredendo spazi e materiali eterodossi, umili, effimeri. Materiali “recuperati” e, insieme attentamente (ri)cercati. Collage, certo, ma anche sovrapposizioni ardite, palinsesti, colori asportati e abbondantemente apportati: un coprire e uno svelare in appassionata e amorosa mescolanza e contrapposizione di epoche, di luoghi, di culture. L'ultramoderno incombente, aggressivo e il permanere silenzioso, discreto, di un'anima antica e semplice, umiliata ma infine trionfante. L'età della pietra, l'età del coccio, l'età del rame, l'età della plastica. Ma andiamo con ordine.
La mostra si intitola “Genocidio”. Genocidio non soltanto nel significato letterale del termine, come atto finale e radicale di annientamento fisico di un popolo. Il titolo e i contenuti non si configurano, cioè, solo come denuncia di una distruzione estrema, ma ci parlano di una più sottile distruzione, dell'omologazione, della terrificante corrosione delle individualità culturali che la modernità, con la sua marea montante di immondizia consumistica e di menzogne, soffoca e seppelisce senza pietà. Ecco allora piccoli frammenti di coccio raccolti nelle campagne del paese natio, incollati su altri frammenti di arte nobile; pietruzze di varie forme disposte in fila ordinata su una tela, ciascuna con una propria individualità, incorniciata in una nicchia simbolica e nobilitante. Poi, in un'altra grande tela, un puzzle di innumerevoli micro-paesaggi che sembra vogliano irridere ogni velleità di rappresentazione figurativa ma sono al tempo stesso delle raffigurazioni, delle piccole cune di nostalgia, anguste finestre sui luoghi della memoria. Ma ecco, enorme e ossessivo, il polittico che forse più di tutti rappresenta il tema del genocidio. Dodici tele quadrate unite come tessere di un mosaico a formare un unico discorso, chiaro e senza fratture né fronzoli: decine di figure umane. Anzi, di corpi rinsecchiti allinenati sulla tela. Qui la ripetizione non ha un valore decorativo ma espone brutalmente e direttamente i risultati persino numerici, computabili della violenza. Ogni atto di violenza può essere tradotto in cifre, ed è proprio l'astrazione del numero a creare il distacco emotivo ad allontanare ed esorcizzare il male. Accanto agli innumerevoli corpi senza volto ecco poi una serie di piccoli volti, quasi un'immensa lapide commemorativa; e ogni volto è scrupolosamente numerato. Cateno Sanalitro dipinge tanti volti in bianco nero, e sotto ogni volto scrive un numero rosso: rosso come il sangue.
Simili a fiori davanti a questa tragica ara pacis, l'artista dispone tanti agnellini pasquali coloratissimi, identici agli agnellini di zucchero che si vedono a Pasqua in certe vetrine, e ogni agnellino è trafitto da una specie di labaro con in cima un grumo di paccottiglia multicolore. Avvicinandosi, ci si accorge che la punta del labaro è insanguinata. Anche il genocidio - sembra voler dire l'artista - può essere impacchettato, infiocchettato e trasformato in merce. Anzi è lo stesso consumismo a trafiggerci, non senza averci anestetizzati e resi consenzienti.
Che dire poi delle installazioni di Cateno Sanalitro? Una delle più notevoli è quella degli animaletti di filo di rame. Si tratta di tanti piccolissimi quadrupedi costruiti avvolgendo del filo di rame e poi dipinti di nero o di un altro colore: un lavoro che testimonia di un metodo rigoroso, oltre che di una grande pazienza. Verrebbe da pensare a un'operazione concettuale (ma Cateno è un artista istintivo, tutt'altro che concettuale) e, perché no, all'umile lavoro degli artigiani, del quale, a volte, l'arte di Sanalitro sembra essere affettutosa parodia e citazione. C'è della disciplina in questo voler ripetere all'infinito la stessa forma, con piccole variazioni. Disposti sul pavimento della galleria Masaorita, gli “animaletti” costituiscono un piccolo gregge compatto, chiuso dentro un cerchio disegnato sul pavimento. Bisogna far attenzione a non calpestare queste minuscole sculture, queste acefale pecorelle: è necessario girarci attorno, chinarsi a guardarle e poi sollevare lo sguardo per scorgere, sullo sfondo dell'arido pascolo, dei filiformi uccelli di legno, là, attaccati alla parete, sotto un lucernaio che provvede allla scena la giusta luce.
IL tutto si presenta come un unico, appassionato racconto. I vari pezzi, i singoli momenti o ambienti della mostra sono un tessuto senza strappi, una storia coerente suddivisa in episodi proprio come i riquadri del tabellone del cantastorie che l'artista, nel tentativo semiserio di costruire un pedigree ai suoi modernissimi polittici, riconosce come possibili antenati della propria arte selvatica e vitale.