"CANTO PERDUTO", Di Silvia Grandi e Sabrina Zannier
Presentazione dell'installazione omonima
Spazio Victoria, Parigi

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L'installazione ottenuta con l'accumulo seriale di scarpe colorate, le proiezioni sulle pareti che alternativamente presentano immagini di terra mediterranea, di pietre, di terreni calpestati e animati da piedi nudi o calzati in “CANTO PERDUTO” di TOTO' CARIELLO e TINO SANALITRO suggeriscono, con un linguaggio diretto e coinvolgente, un'atmosfera carica di simbologie, di impegno e, paradossalmente, anche di ironia.
Le scarpe che compongono la struttura spiraliforme, all'interno della quale sfileranno le modelle, incarnano, di paio in paio, storie e situazioni diverse, si caricano di un passato remoto o prossimo appartenente ai più disparati individualismi. Scarpe trasformate dai chilometri percorsi, sfondate dagli anni di usura, vissute fino all'ultimo respiro, convivono con scarpe da lavoro, da tempo libero, da festa o addirittura con scarpe lussuose ed eleganti, forse indossate una sola volta. Storie diverse, più o meno sofferte, si susseguono in un andamento centripeto per confluire in un accumulo centrale di pietre che, reiterato nelle immagini proiettate, vuole sottolineare il concetto di ambiente come luogo vissuto e ricco di storia, in una sorta di parallelismo simbolico con il vissuto delle scarpe ammucchiate. Ecco prefigurarsi allora una mappa umana ed una territoriale quasi coincidenti, in una simbiosi organica che si carica di tutto il peso della storia. I colori caldi e terrosi delle immagini evocano la meditarraneità di una civiltà contadina in diretto contatto con una natura non manipolata dall'uomo, ma solcata dal tempo; le scarpe a terra invece, dipinte con colori saturi, pieni e corposi, simboleggiano l'intervento dell'uomo sulla primarietà, l'intenzione di incidere e lasciare una traccia tangibile del suo passaggio. Ma anche laddove il colore si fa denso e grumoso, non rinnega mai l'intrensicità della materia, non riesce a celare totalmente l'originarietà dell'oggetto recuperato e la sua storia, pur trasformandolo nella nuova vita di oggetto scultoreo.
L'accumulo di scarpe abbandonate è infatti un accumulo di storie individuali, è forse anche la rievocazione ideale dei lugubri resti dei campi di concentramento e assurge alla storia collettiva in un recupero della memoria che, mediante la rievocazione del mero object trouvè, innesca però uno scarto ironico che rifugge dal ricordo del crudo olocausto. La memoria, recuperata e manipolata, diventa così ambigua ed ironica; il riciclaggio e l'impegno sono giocati con la remissione di valenze cromatico-decorative che scardinano la brutalità di una ripresa tale e quale. Ogni paio di scarpe, ogni storia individuale risorge così nel preludio di una nuova rivitalizzazione, di una nuova identità nell'oggetto-scultura a perdere che ogni spettatore potrà portare con sé: un paio di scarpe, un frammento di storia passata che entra nel vissuto del presente.