Se
fosse possibile seguire la facile strada dell'identificazione e dei richiami
a correnti ed autori, al di là della innata antipatia che le rivolgono
gli artisti, bisognerebbe vedere lo studio e tutto il materiale che vi
è sedimentato, per rendersi conto di quanto quest'impresa possa
essere difficoltosa ed in qualche modo vana (ci verrebbero in mente più
di cinquant'anni di avanguardie e sperimentalismi).
Tino cinquant'anni non li ha di certo, è anzi piuttosto giovane
e forse anche questo spiega tanta prolificità inventiva; ma nel
caos immaginativo trovato l'altro giorno nel suo studio, il riconoscimento
di una radice culturale e di una costante fonte di "ispirazione"
la si può ritrovare.
Discorrendo con lui, frequentemente emergeva dai discorsi il suo stretto
legame con la sua terra natale, ovvero la Sicilia. E non è tanto
per ricorrere a a regionalismi ottocenteschi ma quanto, come afferma lui
stesso, la suggestione dei colori e di certe forme ricorrano come nelle
tele anche nei paesaggi dell'interno inondati di luce, o nell'arte popolare
satura anche questa di luce e di colore, o nella costante (anche nei lavori
più spintamente astratti) di una orizzontale, o meglio di un orizzonte
nel quale per anni probabilmente s è mosso.
Ma è un orizzonte combattuto che con il tempo tende a scomparire,
risucchiato dal magma puntiforme che uniformemente lo contorna.
Mi sembra che uno dei facili riferimenti a cui alludevo prima, stia in
una certa pittura americana.E forse esiste quest'asse che lega il pensiero
di ogni buon siciliano dalla sua terra al "nuovo continente";
evidentemente è inutile per Tino il fatale viaggio senza ritorno
a Coney Island: la circuitazione incalzante delle informazioni negli anni
delle telecomunicazioni, rendono immediato e tangibile l'altrove culturale.
Ed i suoi sono degli spazi in qualche modo coscienti della ipercircuitazione
di notizie ed immagini frammentate e irriconoscibili nel loro caotico
circolare; come in qualche modo lo sono anche del possibile collasso di
tanto "sovraccarico" informativo e dello scotto pagato per raggiungerlo.
Gli impulsi sono inquietanti, gli orizzonti in cui si muovono incerti
e sommersi da radiazioni estranee: la sopravivenza di un ordine(l'ordine
anche dello scambio riflesso, tanto caro ai greci, uomo-natura) è
minacciato, su di lui incombe la catastrofe della cortocircuitazione della
saturazione precipitata.
E' l'entropia che al suo grado massimo è desertificazione, paradossale
grado massimo della quiete, scomparsa dall'informazione nella sua frammentazione
infinitesimale priva di coordinate.
Perchè se l'anomalo, il disarmonico, entrando in una sfera, produce
nuovi impulsi incrociandosi con quelli esistenti,la dispersione della
sfera stessa è l'omogeneizzazione completa ed ottiene l'effetto
opposto: spazio infinitamente uniforme. Alcune tele ci danno l'impressione
di essere dei campioni staccati, ritagliati di questo spazio, prova dimostrativa,
testimonianza di un campo possibile.
Ipotesi che diventava pesante da sostenere proprio nel momento in cui
diventa probabile.
Il patema di Chernobill, la minaccia reale e simbolica che rappresenta,
mi racconta Tino,lo costringe in qualche modo ad interrompere temporaneamente
l'uso di questi spazi per un recupero dell'antropologico, dell'umano.
Un umano incasellato e ripetuto ossessivamente simile, in un ordine precario
in cerca dell'assestamento, che suggerisce come unica possibilità
di ritrovamento la propria dissoluzione.
Poi una nuova inversione, nelle sue ultime tele, la comparsa dei semi
(come li definisce lui): forme tondeggianti che alludono alla vita, sospese
e compresse nel solito magma caotico.
Il discorso resta aperto: ai pessimisti la lettura di una vita che non
può crescere nel catrame che la sommerge; agli ottimisti, la resistenza
del nucleo vitale, la sua sopravivenza anche nell'ambiente più
ostile e nocivo.
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